NOI  ITALIANI  VOI  SICILIANI! - DISCORSO

Introduco la presentazione citando dal libro del rinomato scrittore nigeriano, Chinua Achebe:

E’ il cantastorie che ci rende quello che siamo, che crea la storia. Il cantastorie crea la memoria che i sopravvissuti devono avere – altrimenti la loro sopravvivenza sarebbe priva di ogni significato.
Tramite lo sforzo di scrittori come Chinua Achebe, e come vedremo, anche il nostro Giuseppe Firrincieli, in quest’epoca globalizzata si stanno facendo avanti nelle letterature mondiali storie nuove, racconti sconosciuti, narrazioni di identità soppresse e finora subalterne, ignorati dalle ‘versioni ufficiali’.
Anche in Italia si sta verificando la crescente pubblicazione di letterature ‘altre’, non omologate, sia di autori migranti in Italia, che di autori cosiddetti ‘regionali’ che in realtà sono latori di universi identitari diversi.

Come ci insegna Achebe, il raccontare non è un lavoro marginale, bensì fondamentale. Che cosa saremmo noi, che cosa potremmo diventare, se le nostre voci, i nostri racconti, le nostre narrazioni fossero trascurate, ignorate, denigrate, o peggio, represse? Esisteremmo ancora come persone?Quale padre, quale madre non racconta il proprio vissuto ai figli, o non comunica loro il vissuto degli avi? Non ce lo chiediamo perché ne siamo già ben consapevoli: è tramite la parola che noi infondiamo di significati la nostra esistenza.

Il titolo del libro “Noi italiani e Voi siciliani” prende spunto da un proclama del 1943 emesso da un generale italiano (Mario Roatta) alla vigilia dell’invasione anglo-americana della Sicilia. In questo proclama Roatta si appella alla solidarietà dei siciliani come popolo perché resistano assieme agli italiani all’occupazione straniera. Con queste parole, improntate forse all’estrema criticità di quella congiuntura, il proclama rovesciava anni di propaganda unitaria, riconoscendo, forse inconsapevolmente, l’irriducibile alterità dei siciliani rispetto agli italiani.

E’ a partire da questa fondamentale premessa che si dipana la trama che mette subito in risalto il profondo rifiuto del popolo siciliano a farsi rappresentare e raccontare nelle narrazioni ufficiali o nei racconti altrui.

La storia del mondo è lastricata di discorsi elaborati appositamente da parte di nazioni o di classi egemoni allo scopo di irretire i loro sottoposti e di ridurli ad un ruolo subalterno, a strumenti docili del proprio dominio. E ogniqualvolta che i dominati accettano passivamente, non solo di farsi definire, ma anche di adoperare le parole dei loro dominatori per autodefinirsi, si consegnano alla subalternità in perpetuità, perdendo ogni connotato di identità propria. Nel libro si fa il punto su quanti siciliani si sono lasciati definire come incolti e mafiosi, e, lungi dal ribellarsi, non solo hanno accettato di farsi considerare come tali, ma hanno incominciato anche a pensarsi come tali.

Cito dal libro di Firrincieli dove si parla della storia della Sicilia.

Uno dei protagonisti, il professore Ludovico Lauretta - indipendentista siciliano - è in conversazione con Roberto il figlio del magnate siciliano espatriato, 'Nzino Bertani, figura centrale del racconto:
<<Sicuramente al Liceo è questo che ti hanno insegnato: Sicilia greca, Sicilia romana, Sicilia bizantina, araba, normanna, sveva, angioina, aragonese, spagnola etc. etc.>>
<<Sì, è proprio così>>
<<E’ il popolo siciliano nel frattempo dov’era? Chi erano questi “dominati” siciliani il cui carattere dicono sia stato fortemente influenzato dal fatto d’essere sempre stati sottomessi al qualcuno? Sai chi dice questo? Tutti quegli arroganti che pur di non riconoscere il male fatto alla nostra terra dicono che “ci piangiamo addosso”. Si beano nel preconcetto di una Sicilia sempre dominata da qualcuno e di un popolo siciliano, non meglio identificato, che resta a guardare il passaggio degli eventi storici con la testi china, in saluto riverenziale.>> (p. 276)
Uno dei propositi centrali del libro di Firrincieli è di smascherare tali discorsi canonici e le loro messinscene, le cliché e i luoghi comuni che ambiscono a ‘reificare’, ovvero ridurre a soggetto inerte e permanente, non suscettibile di mutamento, a campione di laboratorio sociale, economico oppure politico, l’animo siciliano.

L’autore conduce questa tematica attraverso un abile stratagemma letterario, il racconto giallo. Qui si susseguono intrighi internazionali, commerci di droga e di armi, nonché inconfessabili vicende di alta finanza. Riguardo a ciò, il libro non ha nulla da invidiare ad altri maestri del genere come Andrea Camilleri.

L’uso di questi espedienti letterari permette a Firrincieli di infondere altri significati, altre valenze e altre cognizioni nel romanzo, che solo apparentemente esulano dal corso della narrazione. Servono invece di porre il racconto su di un piano più elevato, metastorico e simbolico, ovvero per farlo diventare un veicolo per comunicare altri significati e verità, poco grati ai poteri dominanti. Così facendo, a poco a poco, il libro inizia a tracciare una contro-storia della Sicilia, schiudendo le porte a verità sottovalutate o taciute, che non hanno trovato posto nelle versioni ‘ufficiali’. Attraverso questo meccanismo narrativo, il romanzo porta alla luce una lunga e consistente teoria di documenti storici e testimonianze veri i quali fanno trasparire contenuti che non troverebbero mai posto sui manuali di storia omologati ed ispirati a quella mitologia ‘nazionale’ coatta che celebra il Risorgimento e i successivi 150 anni di storia unitaria.

Però il libro non si ferma qui: poco sotto quella superficie liscia da giallo convenzionale, increspata da un sottile filo di libeccio stilistico, scorrono correnti profondi e veri: fiumane di sangue e denaro, incanalate da pulsioni contrastanti di lealtà e di tradimenti. Queste vicende non sono solo frutto dell'immaginario fervido dell’autore, ma corrispondono, sotto spoglie sottilmente mentite, alla cronaca nerissima degli ultimi decenni della storia repubblicana che hanno insanguinato la Sicilia e l’Italia intera condizionando la sorte di milioni di esseri umani. Un attento lettore non può mancare di scorgere nel testo di Firrincieli un trancio di vissuto vero, i cui frutti ancora oggi avvelenano la vita politica della Sicilia.
In questo senso, il felice esito del racconto rappresenta una ‘re-iscrizione’ degli ultimi anni della storia e siciliana e internazionale in chiave di augurio per un futuro dignitoso al popolo siciliano.

A questo punto bisogna rivelare un altro aspetto del racconto: l’impiego di caratterizzazioni vivaci a volte umoristiche, anche con il ricorso alla lingua siciliana, intrise con il sapore di una Sicilia viva e vitale. Prendo esempio di una di queste caratterizzazioni dove l’autore ricorre alla lingua siciliana per meglio esprimere ‘il concetto’.
Cito dal libro, dalla parte dove il prof. Lauretta, accompagnato da Roberto, visita il notaio Isacco Laganà:
Sulla soglia apparve un vecchietto ottantino un po’ curvo come il suo naso, uguale a quello della sorella e con un bastone in mano. Era in vestaglia da camera, in pantofole e portava in testa una papalina che forse era ottantina pure lei.
<<Se sei venuto per quella storia del passaggio di proprietà del terreno di Mimì Occhipinti, te ne puoi tornare da dove sei venuto. Ch’è successo? Hai litigato con quelle sante donne delle tue sorelle? Che come ti sopportano Dio solo lo sa!>> disse con voce stridula.
<<Buongiorno Isacco. Vedo che sei sempre di ottimo umore. Gente allegra il ciel l’aiuta! No, non sono solo a Scoglitti. Ti presento Roberto Bertani figlio di ‘Nzino Bertani, nipote di don Turiddu, figlio di...>>
<<Dovì, hai scanciato la mia casa per l’Ufficio anagrafe?>> (p. 295).

Poi, alla fine dell’incontro tra i tre, l’autore ha questo da rappresentare:
Roberto era di pietra. In pochi secondi era successo tutto e il contrario di tutto. I suoi scontri al vertice ad Amsterdam impallidivano di fronte a quel saggio di “trattativa bilaterale”. (.p. 300)
E’ per il tramite di simili ‘vignette’, solo superficialmente macchiettistiche, che nella parte finale del romanzo la narrazione s’eleva ancora ad un piano rappresentativo superiore: quello del mito e della poesia, inoltrandosi alla scoperta delle radici dell’animo siciliano. Subentra un ritorno narrativo e allo stesso tempo simbolico - che nella lingua greca si esprime con la parola pregnante nostos - di chi era partito per lontane sponde e che si era rifatto una vita prospera ma mai dimentica delle proprie origini. Non si tratta della rivisitazione di un passato immutabile e statico, bensì dell’avvicinarsi ad un futuro diverso dove possono convivere sia le radici antiche del popolo siciliano, che nuove prospettive politiche, economiche e sociali.

Un futuro che potrà realizzarsi solo attingendo a piene mani dalle fonti profonde della storia e delle identità siciliane attraverso l’arricchimento con il fertile innesto delle esperienze, delle competenze e delle conoscenze acquisite in lunghi anni di duro lavoro, di sacrifici e di esilio, dove i siciliani espatriati si sono fatti onore, malgrado o forse proprio perché in bocca era rimasta loro l’amarezza della dolorosa partenza. Ed è questa una storia che noi tutti conosciamo bene, fin troppo bene.

Il libro di Firrincieli si iscrive in quella sempre più attuale tendenza, in quella coscienza che si sta maturando in tutto il mondo tra quei popoli che per troppo tempo sono stati privati di una voce propria, di cui i cantastorie hanno ultimamente incominciato ad elevare udibili elogi alla propria identità e dignità.

Come due millenni addietro, quando la grande narrazione di Omero lambì le coste della Sicilia, plasmando e alimentando la nascente coscienza del mondo ellenico, anche il libro di Firrincieli s’iscrive in un’opera di ricostruzione e di rilancio della coscienza siciliana infondendo una nuova fiducia nel futuro. L’autore ha sapientemente condotto il suo percorso narrativo oltre il giallo, per quanto avvincente, allo scopo di inserirlo come tassello in un’opera incomparabilmente maggiore: quella del ripristino di una identità siciliana autoctona, moderna e allo stesso tempo consapevole delle proprie radici, che finora non si è resa protagonista perché privata dai ‘discorsi ufficiali’ della fiducia nelle proprie ragioni.

Nella storia della cultura, il romanzo è quella forma letteraria che svolge il ruolo precipuo di formare la coscienza collettiva, di rilanciare e consolidare i sentimenti di appartenenza, di alimentare la consapevolezza che la vita del singolo s’iscrive in un destino comune. Il romanzo crea la nazione. Con l’esempio dato dal suo libro, Firrincieli invita e incoraggia ognuno di noi a dare il proprio contributo a questa riscrittura della nostra identità.

Il romanzo ‘Noi italiani e Voi siciliani!’ ambisce a ridare la voce al popolo siciliano che finora è stato ammutolito e ridotto ad umile recipiente dei discorsi altrui, tacciato di essere rozzo, violento e ignorante.

Il libro auspica il ripristino dell’orgoglio, della dignità e della specificità siciliani. Offre una speranza: che i siciliani rimasti in patria e quelli espatriati, fondendo le proprie energie e le capacità acquisite in lunghi anni di sacrifici, uniti nell’amore per la propria terra, possano finalmente riprendere le redini del proprio destino.

In fondo, si tratta di un passaggio delle consegne: dalle generazioni passate un lascito di un tesoro di energie alle nuove generazioni, le quali potranno così forgiare una nuova Excalibur per il mitologico re Artù, il quale, piantandola di nuovo nell’Etna, potrà fermare la colata lavica dei discorsi altrui, e permettere finalmente alla Sicilia di rifiorire.

© Gerardo Papalia
Italian Australian Institute - Research Centre at La Trobe University
25 Ernest Jones Drive, Macleod, Victoria 3085, AUSTRALIA
g.papalia@latrobe.edu.au

 

 

 

 

Pippo Firrincieli scrive con la forza e la passione che solo un siciliano può avere.

In questo lavoro parla della sua terra e lo fa in una chiave originale e disinvolta seppur

nel rispetto della forma e dei contenuti. L’utilizzo del dialetto e dei termini antichi, la

narrazione dei fatti, dei luoghi e delle persone, con i loro nomi e soprannomi, dipingono

sapientemente le tradizioni e le radici di una regione d’Italia che è stata e che è

tutt’oggi la culla della cultura occidentale: la Sicilia.

Pippo cattura tutti, anche il lettore meno avvezzo e poco attento, offrendo la possibilità

di viaggiare in un mondo ancora in bianco e nero dove le vite dei personaggi si dipanano

con estrema naturalezza, assumendo via via i colori e le sfumature più opportune, dando

luogo ad un appassionante e misterioso romanzo che si tinge anche di giallo.

E’ facile ed affascinante lasciarsi sedurre da questo piccolo capolavoro in cui il racconto

diventa realtà e la storia costantemente scandisce il passare del tempo illustrando le

cause e gli effetti che condizionano il vivere quotidiano. Non si fa in tempo in una sola

giornata a scoprire che quando leggerete l’ultima pagina, tutto, vi sembrerà finito

troppo presto. . .

Gianni Milano

Gianni Milano

è nato a Napoli il 3 dicembre del 1969.

Conduttore ed autore televisivo, lavora per la RAI dal mese di giugno del 2004 ed ha

realizzato, ad oggi, circa 400 puntate di diversi programmi: un’edizione di “sabato e

domenica estate” per RAI UNO, tre edizioni di “sereno variabile” per RAI DUE, due

edizioni di “Italia sul due estate” per RAI DUE, tre edizioni di “ruralia” per RAI DOC,

un’edizione di “Italia campus” per RAI  INTERNATIONAL.


 

 



Era un pomeriggio del mese di maggio dello scorso anno e Giuseppe venne a trovarmi e mi disse:

” Franco  dobbiamo andare a vedere un posto speciale ”.

Andammo a Kamarina per ammirare un tramonto speciale, un rosso di sera così intenso, così accattivante che forse non avevo mai visto.

Un rosso proiettato in un cielo così azzurro che sembrava un miraggio.

Giuseppe, al cospetto di quell’ insolito panorama, mi disse:

“Franco ammira questo tramonto, impressionalo nella tua mente con l’ aiuto dei tuoi occhi e del tuo animo poetico . . . trasferiscilo poi con pari sentimenti nella tela; tira fuori tutto il tuo amore per questa terra. . . non mi deludere!”.

Dopo qualche mese, Giuseppe mi venne a trovare a casa e lo feci accomodare nel mio disordinato studio che lui definisce la mia bottega d’artigiano.

Prima di scummigghiari la tela, gli dissi :

” Non mi diri parulazzi, appena u viri.  Nun fari o solutu to ca già   mpartenza mi rici ca nun ti piaci ! ”.

Conoscendo la sua pignoleria nel giudicare da serio critico la mia arte visiva e definendomi sempre  un artista pittore, perché, a suo dire, nei miei dipinti trova tutta la forza interiore per fare emergere una luminosità unica, tutta siciliana . . . mi rispose:

“ Manca ancora qualcosa,  forse la forza dell’amore del richiamo dei figli di questa terra, pensaci tutto il giorno e stanotte,  infondi con la  tua mano i colori dell’amore con la necessaria eufonia visiva.  A domattina, ciao Franco,  Ah… vedrai,  ce la farai!”.

Le sue parole mi condizionarono a tal punto che per l’intera giornata pensai a quel quadro.

Sul far della sera, la mia mano permise al pennello di riportare quelle sensazioni suggerite ed oggi sono orgoglioso  che, di quel quadro, Giuseppe ne ha fatto una  chicca interessante di questo libro che merita di essere letto da tutti i siciliani, anche da quelli sparsi nel mondo.

 Franco Sciacca
 


 

Giuseppe carissimo,

 “ voi siciliani… “…quante volte me lo sono sentito dire da certi poveri mentecatti, convinti di farmi sentire di una  razza inferiore… poverini … non sapendo che, per chi come me o mio fratello, siamo stati allevati a pane e sicilianità da nostro padre.

L’essere siciliano è la più alta gratificazione che la vita possa averci dato; Un padre che sino al suo ultimo giorno di vita  si emozionava alla vista della nostra “montagna” e che ci ha inculcato l’orgoglio di essere noi i veri  “uomini d’onore “, l’onore della rettitudine, della onestà , conquistati con il sacrificio ed il lavoro, mentre invece nessun onore può essere riservato a quei vigliacchi assassini che uccidono un uomo  alle spalle o mettono una bomba sotto un cavalcavia.

Ho trovato nelle tue pagine uno spaccato di vita quotidiana piena di quei valori umani che la nostra gente possiede, mi hai fatto tornare idealmente sulle ginocchia di mio padre quando mi raccontava del suo passato di giovane militante dell’ EVIS , un sogno sfumato ma che gli aveva lasciato la fierezza di chi, in un momento storico travagliato , aveva avuto il coraggio di mettere a rischio la propria vita per un ideale e per la propria terra .

Ho rivisto nelle tue pagine uomini, posti e avvenimenti  che hanno fatto parte della mia infanzia e spero che chi le leggerà le custodirà  e le tramanderà ai propri figli come un patrimonio storico e culturale del quale per troppo tempo si è taciuto e del quale qualcuno, colpevolmente, vuole far perdere la memoria .

Lo spirito di appartenenza alla propria terra è uno dei sentimenti più forti e nobili che un uomo possa avere ed anche in un era di globalizzazione come la nostra questo non  deve significare assolutamente voglia di contrapposizione o prevaricazione.  
Al contrario,dobbiamo agire nel rispetto reciproco delle persone, pur appartenendo a culture diverse, perché tutti i siciliani, appartenenti alle radici culturali di veri “uomini d’onore” potranno creare una società più giusta e solidale , fondata sul rispetto della diversità e sulla condivisione dei più nobili valori.
Tutti gli uomini siciliani, indipendentemente dal credo politico e religioso possano realizzare il sogno di una società migliore.

Un sincero grazie 
Io siciliano

Alfio Emilio Velis
 


 

Perché tutti i siciliani dovrebbero leggere questo romanzo?

Forse perché traccia un quadro storico della Sicilia che è “contro”.

“Contro” la storiografia ufficiale che, nel suo tentativo di oggettivazione culturale, ha creato un patrimonio storico che tenta di imporre una simbologia dello stato-nazionale che non tiene conto della “verità storica” ma semplicemente di quella che si vorrebbe fosse la “verità storica”.

“Contro” un apparato statale che, esorcizzando la sua paura delle minoranze culturali e del diverso da sé, tenta di ridurre le diversità stendendo un velo di oblio su tutto ciò che contraddice la supposta “purezza” dell’unità nazionale.

“Contro” i luoghi comuni che vogliono la Sicilia arretrata e suddita di dominazioni straniere, senza una cultura ed una storia proprie.

“Contro” una politica nazionale che sfrutta l’ingegno e la fantasia dei siciliani senza riconoscere loro la possibilità di utilizzarli a vantaggio della propria terra.

Oppure dovrebbero leggerlo perché è un thriller veloce ed appassionante dove la Sicilia diventa il centro del mondo ed i siciliani sono protagonisti della loro vita.

Forse ancora per le frequenti immagini poetiche che rendono vive le tradizioni e gli stati d’animo dei siciliani, facendoli “sentire” al lettore come propri.

Tutto questo è vero; ma io l’ho letto solo perché è un bellissimo libro.

Giuseppe Motta